Il calcio non è uno sport per dilettanti. Non si improvvisa. Non è lo sport della domenica, giusto per liberarsi dalle tossine della settimana.
Il calcio è uno sport dove occorre rigore e sacrificio.
Vittorio Pozzo lo sa. E ne fa scienza.
In questo mondo pionieristico, dove tutto era troppo giovane per diventare legge matematica, lui cerca di controllare tutto. Dai pasti alla vita privata, dalla tattica alla preparazione atletica. Il controllo assoluto su quelle variabili impazzite che rendono una squadra una macchina che funziona. Perché non basta la fantasia e la voglia. Occorre programmazione e corpi che si muovono spinti dall’inerzia, figlia di allenamenti pensati con uno sguardo prospettico.
Lui, il deus ex machina di una nazionale che negli anni 30 vincerà tutto. Quello che avoca a sé il potere della conduzione. Che guida tutti con rigore piemontese. Come quegli straordinari vini che in Piemonte sono frutto della cura e dello studio. Ché basta salti un elemento perché si trasformi in cattivo aceto
Dunque non più commissioni pletoriche alla guida della nazionale, dove la discussione si tramuta in inazione. Ma un comando fermo e autorevole a cui non mancano incursioni patriottiche e riferimenti bellici. Lui che la guerra l’aveva fatta per davvero e da lì aveva tratto lezione prima morale, con una sempre presente retorica del sacrificio, poi disciplinare, nell’imparare l’arte del comando.
Studia tanto Vittorio Pozzo e studiando il calcio inglese adotta il cosiddetto METODO, un’evoluzione delle disposizioni tattiche utilizzate nella patria del calcio. Perché questa impostazione si addice di più alle caratteristiche continentali. Più difensivo e con quelle fiammate in contropiede che diventeranno un marchio di fabbrica nella nazione dei difensori. Quasi lui avesse dato una direzione ad un gioco che da allora riproporrà sempre gli stessi valori. Con cui tutti devono confrontarsi, anche quando vorranno rigettarlo. Perché quella è la nostra eredità.
Vinse tutto quella nazionale, dominando un decennio. Come nessuno ha mai più fatto. E lo fece spinto anche da quella retorica dell’amore patrio che lui cercava di infondere. E di questa epopea il fascismo fece propaganda. Tanto da venire quasi dimenticato nel dopoguerra. Quando l’Italia cercò di rinascere antifascista e le immagini di repertorio restituivano saluti romani durante l’inno.
Ma è difficile dimenticare chi del nostro calcio è stato padre e maestro. Calcio Graffiti