Era un profeta della zona Sven Goran Eriksson.
Di quelli che negli anni 80 cercavano di rinverdire i fasti del calcio totale. E di soppiantare il calcio statico della marcatura a uomo.
E con le sue idee accresceva la sua fama. Perché il giovane Eriksson, profeta in patria, portava il Göteborg a vincere la Coppa Uefa. Prima squadra svedese. Tanto da affascinare il blasone del Benfica che portava in finale di Coppa Uefa.
Così convincente nel modo di proporre le sue idee da attirare le lusinghe dell’allora campionato più bello del mondo. Con la Roma che cercava un sostituto per un altro svedese. Il barone Liedholm. Con un impatto traumatico. Con i campioni che faticavano a dialogare con lui. Con l’approccio del giovane mister che pensava più alla squadra che al fuoriclasse di turno. Con l’idea che il gioco valesse più del singolo.
Mostrando rigidità per certi versi. Come se la sua origine nordica cozzasse contro la mentalità mediterranea. Ma al secondo anno quella Roma esplodeva. E dopo una rimonta insperata ai danni della Juve, sbatteva contro la retrocessa Lecce. In quello che rimarrà per sempre una delle più grandi tragedie per il popolo romanista.
Poi la Fiorentina. Per poi emigrare ancora. Sempre al Benfica. E dopo tornare prima nella Sampdoria e poi nella Lazio. Dove trovava una squadra arricchita dai miliardi di Cragnotti.
Però sembrava cambiato il mister. Quasi che il pragmatismo del nostro calcio l’avesse contaminato. Non più zona totale, fraseggio stretto e pressing alto. Ma un approccio più meditato. Con i singoli nei posti giusti. Un atteggiamento insospettabile qualche anno prima. Quasi che l’indole del giocatore fosse più importante del collettivo. Quasi fosse il campione a forgiare la squadra e non viceversa.
E così, con i campioni dell’era d’oro, la Lazio vinceva lo scudetto tanto agognato. Atteso da così tanti anni. A coronare un’epopea.
Sempre pacato negli atteggiamenti l’allenatore svedese. Mai una parola fuori posto. Mai una polemica. Sempre attento a misurarle, le parole. Tanto da definirlo “british” nell’atteggiamento. Talmente “british” da essere ingaggiato dalla nazionale inglese. Quasi perfetto in quel ruolo. Portando anche lì la forza della sua pacatezza. Senza però coronare la sua esperienza con un titolo. Che da tanto mancava in terra di Albione.
E poi tanto girovagare per il mondo tra nazionali e squadre di club. Fino al ritorno nella sua amata Svezia. A fare da direttore tecnico in una squadra di terza divisione. A godersi la pensione senza però staccare la spina.
Ha segnato tanto il calcio per più di trent’anni Eriksson. Cambiando, mutando. Come coloro che per intelligenza si adeguano ai contesti e alle situazioni.
Così l’uomo che veniva dal Nord diventò un po’ anche italiano.