Avevo 19 anni. La mia prima stagione a Torino era andata bene. Il mister mi faceva entrare sempre il secondo tempo. E io mi sentivo sempre più smaliziato. La tensione man mano scemava. Mi stavo abituando allo stadio, ai tifosi, alla tensione, alla Serie A.
Dopo quell’anno fui convocato dalla società che decise di mandarmi in Serie B. A farmi le ossa. Così si dice. Nella provincia a fare la gavetta. Sui campi duri della serie cadetta. Dove nessuno toglie la gamba. Dove gli avversari ti guardano a brutto muso. Così da fortificare il fisico e il carattere.
Così fui mandato in prestito. Non ne fui contento. Mi sentivo un pacco da spedire. E poi pensavo già di meritare di più. Che la Serie A fosse la mia casa. Insieme ai campioni.
Da allora ho girato per otto lunghi anni la provincia. Tra Lombardia, Veneto e Campania. A fare la spola tra Serie A e Serie B. Sempre in prestito. Ogni anno tornavo a Torino e poi ripartivo.
La realtà era più dura di come la immaginassi. Ogni domenica a dimostrare di valere la categoria. A lottare per conquistare un posto da titolare. A lavorare come un mulo durante la settimana per convincere l’allenatore. E poi il sacrificio, le rinunce.
Il bambino che dribblava tutti, il fenomeno che tutto il quartiere veniva a vedere giocare non c’era più. Il professionismo l’aveva ucciso. Insieme alla passione. Ai sogni.
Ormai era il mio lavoro.
Dopo tanti anni mi comprò il Cesena. Quattro anni di contratto. Finalmente non ero più un giocatore in prestito. Non dovevo dimostrare ogni giorno qualcosa. Qui trovai la mia casa. La mia dimensione. Con il pubblico che mi considerava uno di loro. E mi legai alla città e alla maglia. Così come per magia. Come fosse una corrispondenza amorosa.
Quella fascia che cavalcavo ormai da tanti anni diventò la mia strada. E quando lo stadio mi vedeva involare sulla linea laterale mi accompagnava col boato. Tanto che cominciarono i cori su di me. Mi chiamavano la “Freccia del Sud”.
Facevamo sempre l’altalena tra Serie A e Serie B. Ma io ormai avevo una casa. E ritrovai così la passione per il pallone che avevo perduto tra i mille campi calcati.
Dopo quattro anni guadagnai i gradi di capitano. Entravo in campo davanti a tutti con il gagliardetto in mano. Mi sentivo protagonista. Ero finalmente orgoglioso di me.
Sono Gianni Bartozzi e a 30 anni ero capitano del Cesena.