Solo dall’altra parte dell’Adriatico. A due passi da noi. Ad uno schioppo di traghetto. Una terra stretta tra il mare e i monti.
Una volta lì c’era un popolo. Un insieme di popoli. Si chiamava Jugoslavia. E riuniva in sé culture e fedi diverse. E una predisposizione per lo sport. Innata. Soprattutto per quelli di squadra.
E quindi ad eccellere nella pallanuoto, nel basket, nella pallavolo. E nel calcio. Senza mai vincere nulla. Arrivandoci vicino. Ma inseguendo sempre una visione estetica. Un bel giocare. Guardando al calcio come qualcosa da plasmare. Da creare. Senza inseguire modelli precostituiti.
Ritagliandosi la fama di brasiliani d’Europa. Per il genio dei suoi interpreti. Accompagnato da quella sregolatezza che ne è compagna fedele. E quindi calciatori da mettere in cartolina tanto da essere manifesto per questo sport. Ma che durante la partita si eclissano a rimirare la loro bellezza.
E la squadra più famosa tra quelle terre ricorda questa vicinanza lontana nominando il suo campo Maracanà. A ricordare l’esotico approccio al pallone. E quella visione estetica che li rende diversi da tutti e sempre uguali a se stessi.
Stella Rossa è il suo nome. Squadra di Belgrado. La capitale. E qui nel 1991 costituisce una compagine che non gioca a pallone. Ma il pallone lo accarezza. Gli fa assumere traiettorie imprevedibili. A sfruttare quella sregolatezza come una dote e non una pecca. Perché la sua irregolarità diventa un’arma. Spezza la linearità di chi agisce sempre con razionalità. E celebra la follia di chi ha una visione diversa. Laterale.
Quella squadra annovera tra le sue fila Savicevic, Prosinecki, Jugovic, Mihajlovic che andranno ad arricchire l’occidente d’Europa. Che insieme portano finalmente l’eccentricità slava a vincere qualcosa. Vince la Coppa dei Campioni il 29 Maggio del 1991 a Bari.
Giusto dall’altra parte dell’Adriatico. Calcio Graffiti