Lo potevi vedere scendere in campo prima delle partite. A cospargere chili di sale sul campo. A cercare di guidare il destino con riti propiziatori. E se questo non bastava, chiedeva aiuto al cielo. Organizzando pellegrinaggi al Santuario di Montenero o alla più gettonata Lourdes. Con tutta la squadra. Ché chissà la benevolenza dei santi avrebbe potuto indirizzare il campionato. E non c’era modo di ribellarsi. Perché “il Pisa era lui”.
Romeo Anconetani era così. Un “presidentissimo”. Di quelli che decidevano tutto loro. Dal ritiro alla preparazione atletica. E finanche ai giocatori da schierare. Producendo epici conflitti con i suoi allenatori.
Umorale anche. Un giorno a coccolare i suoi giocatori, il giorno dopo a punirli con ritiri coatti. E corrosivo nelle sfuriate contro giornalisti e collaboratori. Con quella voce roca che graffiava l’interlocutore.
Ma allo stesso tempo un generoso. Uno che metteva tutto se stesso nella squadra. Tanto che la squadra si identificava con lui. Lui che non era un imprenditore o un grande possidente. Ma che il Pisa l’aveva creato mattone per mattone. Mettendo a frutto la sua esperienza e la sua abilità nel calcio mercato.
Uno che si era inventato la figura del procuratore quando i procuratori non esistevano. Creando un archivio che si tinge di leggenda. Migliaia di pagine su giocatori di tutto il mondo. Riscuotendo un 5% sugli affari. E poi mettendo a frutto da presidente tutto questo, quando da Pisa transitò gente come Bergreen, Kieft, Simeone e Dunga.
Perché Romeo Anconetani univa l’atteggiamento paternale allo spirito d’impresa. A rappresentare quella provincia battagliera e mai doma. Diventando una maschera da commedia dell’arte.