Viene dall’Est il sangue di Pietro Vierchowod. Dal padre prigioniero di guerra in Italia. E di quelle origine porta il rigore del freddo. Un fisico forgiato nel ghiaccio. E la glacialità di chi deve eseguire gli ordini.
Perché a lui veniva assegnata la marcatura del centravanti. E allora lo zar con osservanza scientifica si occupava di lui. Mostrando la tensione dei suoi muscoli e quel ghigno burbero. Ad intimorire fisico e mente. Così che l’attaccante fosse colto da claustrofobia. E trovasse l’unico rifugio nella panchina.
Senza fronzoli. A far sentire la morsa della rudezza. Quasi essenziale nello svolgimento del suo compito. Con il solo scopo di respingere gli attacchi. Che rimbalzavano contro la sua forza pietrosa.
Quasi una macchina. Un automa votato alla difesa. Che si azionava quando sentiva l’odore del prato. Individuando il bersaglio nel mirino. Ma non solo durezza e obbedienza alle consegne. Ma anche rapidità e tecnica. Che lo portava spesso a provare la gioia del gol. A farsi largo di fisico per restituire al pallone la violenza della sua fronte.
È stata lunga la sua carriera. A vincere scudetti a Roma e a Genova. Dove il tricolore è un evento che si festeggia anni e si serba tra i ricordi più cari. Sempre a far reparto da solo. Mandando avanti gli altri. Ché a difendere ci pensava lui. E poi una Champions in tarda età con la Juve.
E infine, quando sembrava prossima la pensione, a consegnare la sua sapienza calcistica al Piacenza. Dove insegna calcio come fa un nonno con i nipoti.