Sui campi pietrosi di Catania il piccolo Anastasi sogna il calcio dei grandi. E sogna la Serie A. Come al cinema si sogna l’America. Lontana come sa esserlo un sogno. Ma così vicina alle sue fantasie di bimbo.
Lui, figlio di famiglia operaia, si fa notare nel calcio giovanile. Con quella faccia spigolosa e i capelli corvini. E quella carnagione ché quasi quasi lo scambi per un maghrebino. “U turcu” lo chiamano.
Finché dal nord non si accorgono di lui. E lo portano a Varese, il giovane Pietro. Così lontano dalla sua terra. Così diversa quella nuova casa. Con quella nebbia che ti entra nelle ossa. E quel freddo che ti blocca i muscoli. Ché vorresti solo il sole caldo di una giornata al mare.
E poi la chiamata della Juve. Dell’Avvocato in persona. Che magari vuole fare un regalo ai suoi operai meridionali. O forse zittire inquietudini di fabbrica.
E allora si trova lì dove hanno giocato i grandi. Quelli che lui vedeva al cinematografo. E che sognava prima di addormentarsi. Citando a memoria le formazioni.
E lo accolgono come il fratello piccolo gli operai di Mirafiori. Chiamandolo “Pietruzzu” come si chiama il più giovane, per ricoprirlo d’affetto. Perché lui ce l’ha fatta. E rappresenta la rivalsa di quegli uomini. Il “terrone” che ha il 9 sulle spalle. Il proletario alla cena dei ricchi e potenti.
E quando lui gioca è come se una parte di loro giocasse con lui. Come se portasse in petto il loro pezzo di terra. La loro origine.
Tutto istinto quel centravanti. Magari lacunoso nella tecnica. Ma tutto volontà e coraggio. A buttar le gambe avanti per la forza della determinazione. Con quel mordente che gli fa vedere la porta prima degli altri. Con la caparbietà di chi nella vita ha combattuto.
Starà 8 anni con la Signora. Amato dai tifosi come il prediletto. Per poi andare due anni all’Inter dove la magia non si ripeterà. Per un declino che lo porterà nel calcio di provincia.