Ogni epoca vuole le sue rivoluzioni. Che dalla politica passa a tutte le attività sociali. Dalla musica al cinema, dalla letteratura alla moda. E sconvolge anche il calcio. Introducendo concetti proibiti. E visioni eretiche.
Il ’68 visto dal pallone, ha un solo colore: arancione.
Una rivoluzione che trova il suo apice nei mondiali tedeschi. Dopo che le squadre di club avevano conquistato l’Europa. Ed ecco che concetti come l’occupazione degli spazi, l’intercambiabilità delle posizioni, l’eclettismo dei giocatori si dispiegano. Conquistano il mondo.
Il movimento vorticoso come rappresentazione del gioco. Non sacrificando mai l’individualità ma valorizzandola. Mettendola al servizio di un’idea di squadra. Con questa marea arancione che piano piano avanza fino ad assediare l’area avversaria. Per poi sferrare improvviso l’attacco con scambi veloci.
Perché si muove compatta l’onda arancione. Perché i difensori non sono più difensori e gli attaccanti non più solo attaccanti. Ma tutti fanno tutto. Estendendo e valorizzando il concetto di “universale”.
E quell’idea di responsabilità individuale portata nel ritiro. Dove si portano mogli e compagne. Perché ognuno si disciplina secondo un concetto alto di libertà. Ampliato da una nazione dove i diritti individuali sono sacri.
Non ha vinto nulla quella Olanda. Battuta in finale dal pragmatismo tedesco. Nell’ostentata volontà di affermare il nuovo. Oltranzista come chi vuole sostenere idee innovative. Ma ha capeggiato una rivoluzione di cui tutto il calcio moderno le è debitore.