Quando guarda i suoi giocatori Nero Rocco pare un padre davanti ai suoi figli. Con quel corpaccione da scaricatore e quel volto burbero. Fatto apposta per fare una ramanzina allo scolaro monello. Ma anche per dargli poi uno scappellotto e ridurre tutto alla pazzia della giovinezza. Come chi capisce le cose della vita.
Uomo pratico era Rocco. A forgiare una stirpe di allenatori che da allora seguiranno quella pazza inversione del calcio italiano. Non si parte dall’attacco. Ma dalla difesa. Con quel “tiratore libero” staccato dietro a coprire le falle. Un’ulteriore diga a difesa della porta. Perché l’ultimo dribbling non sia mai l’ultimo. Ma l’avversario troverà sempre un nuovo ostacolo.
A stringere gli spazi dell’attacco. A non dar fiato alle manovre avversarie. Che spingono, spingono alla ricerca del varco. E si sbilanciano nella vana individuazione del pertugio. E così, riconquistata palla si riparte su verdi praterie. Con la libertà di giocare senza la pressione. E con lo sguardo rivolto alla porta.
Catenaccio lo chiamarono. A significare l’inestricabilità della difesa. Senza progetti roboanti che rivendicano una superiorità. Ma l’umiltà di chi riconosce in sé i valori della fatica e dell’impegno. Un gioco in cui conta anche la rudezza del mediano e la brutalità dello stopper. E poi i piedi buoni di chi accarezza la palla.
E con lo spirito di chi sa che, pur essendo inferiore, con intelligenza e praticità arriverà a provare la vertigine dei primi posti. Come col Padova o la Triestina. Con le grandi squadre che hanno un rigurgito quando pensano di calcare il campo padovano. E poi col Milan in cima al mondo, riproponendo sempre lo stesso calcio sornione ed infingardo.
Senza mai manifestare la spocchia dei campioni. Ma sempre a rimarcare il suo fare popolare. Con quel dialetto triestino come lingua naturale. Quasi l’italiano fosse un impedimento al suo parlare verace. Sempre alla ricerca di una freddura. Coniando modi di dire. Con l’ironia di chi tende a a guardare al pallone come la più pratica delle attività. Non con la vanità dell’artista ma col fare dell’artigiano che giustifica la sua maestria con l’esperienza.