Tu, mister, non dormirai sonni tranquilli. Finché ci sarò io dovrai guardarti le spalle. Vivere l’ansia. E quando penserai di essere al sicuro, magari dopo una rassicurante vittoria, ti farò fuori.
Zamparini era così. Un mangiaallenatori. Quasi uno sport per lui che di tecnici ne ha cacciati 51. Perché la squadra era cosa sua. Come i suoi supermercati e i suoi immobili. E ne disponeva a piacimento.
Come a voler far sentire la voce del padrone. A mostrare a tutti che quella era roba sua. Sua proprietà. A piazzare la bandierina con decisioni spiazzanti, insensate. Ma che stavano a dire che lui faceva quello che gli pareva. Anche quando la squadra era reduce da una vittoria.
Perché lui era figlio di quel nord-est della fabbrichetta. Del senso dell’impresa. Di quella terra laboriosa che semina aziende e denaro.
E ne accumula tanto, lanciandosi nel mondo pallonaro. Comprando il Venezia che fonde con il Mestre. Portandolo in serie A. E regalando un’annata storica con Recoba. E poi la sua impresa più ardita. Sbarca In Sicilia e compra il Palermo. Che in pochi anni diventa crocevia di campioni. Con una squadra che vive il periodo più florido della sua storia.
Lui uomo del Nord tra la passionalità degli isolani che gli chiedono la grande squadra. Che vogliono sentirsi grandi tra i grandi. Diventando così un uomo della provvidenza.
E così quel Palermo va in Europa e arriva due volte quinto. Rivaleggiando con i potentati. Mentre lui imperversa con interviste politicamente scorrette. Senza peli sulla lingua. Vulcanico con quella sua voce roca. Tanto che sembra debba esplodere in diretta.
Uomo col fiuto degli affari. Protagonista di innumerevoli plusvalenze. Acquistando giovani speranze che trasforma in campioni rivenduti in tutta Europa. E allestendo una squadra che diventa vanto della Sicilia. Finché non sembra stancarsi del giocattolo. E così arriva il declino fino al recente fallimento.