Dai che è l’ultima pedalata. Un altro sforzo e la salita sarà finita. Raccogli l’ultima stilla di energia e buttala giù sui pedali. Ché dopo è tutta discesa. E la sofferenza finirà.
Marco Pantani era uno scalatore come quelli di una volta. Il fisico minuto e quando la strada sale, in alto sui pedali. A trasformare il ciclismo in una danza. In un movimento ipnotico. Non affidandosi alla potenza. Ma alla leggerezza del suo caracollare.
Non come quelli che vanno su di passo. A controllare il cardiofrequenzimetro. A fare affidamento alla scienza. A calcolare i watt come macchine ad alto funzionamento.
Nessun calcolo. Solo sensazioni che si tramutano in azioni. Anche quando converrebbe rimanere buono in gruppo ad osservare gli altri. A studiare gli avversari. A scrutarne il viso in attesa di un cenno. Lui molla la bandana e, mani sui manici, si abbandona alla salita. Come se un istinto più grande lo chiamasse. Anche a costo di saltare e uscire di classifica. Ché dei piazzamenti non si ricorda nessuno. Solo statistica.
A rinverdire un ciclismo eroico che è da tanto che non si vedeva. In mezzo a tanti che stanno lì con la calcolatrice a guardare al sesto o al settimo posto. Con l’ardore di chi scommette tutto su se stesso. O crollo o vinco.
Sempre a combattere con infortuni. E a risorgere con la fatica. Con il lavoro. E con l’affetto di chi vede in lui il sentire dell’eroe vessato dalla sorte. E a ricominciare. Daccapo. Perché non c’è nulla che inebri di più di quando sali sui pedali e vai. Solo. Sentendo dietro la presenza affaticata del gruppo. Che ti guarda ma ti lascia andare. Impegnato a raccogliere il respiro che serve per continuare a vivere.
Se n’è andato troppo presto Pantani. Schiacciato da un mondo che lo opprimeva. Da quella pressione che ti blocca il respiro. Da quella caduta che fa più male quando si è in alto. In quella difficoltà di vivere che è la salita più dura da affrontare. Calcio Graffiti