Quando lo guardavi provavi quella sensazione che hai quando vedi qualcosa di maestoso. Così enorme da generare meraviglia. Quella meraviglia che nasce dal tuo essere piccolo di fronte all’infinitamente grande. Il senso del sublime.
Perché il Maracanã è nato per ospitare un popolo. Per celebrare un trionfo. E infatti il giorno dell’atto finale dei Mondiali del ‘50 c’erano 200000 persone. Con l’Uruguay. In uno stadio che ne poteva contenere 165000. Tutti a riverire il calcio ballato dei carioca. E quel gioco che è espressione autentica del senso della vita brasiliana.
Fu infatti costruito nel ‘48 per ospitare i mondiali della rinascita dopo la Guerra. Ma il neonato Maracanã fece da cornice alla tragedia di un popolo. Il trionfo che si tramuta in dramma. Tra lacrime e suicidi tra le strade di Rio. Una sconfitta che diventa insegnamento di vita. A rappresentare le aspettative disilluse dal senso di realtà.
Maracanazo. Così chiamano quell’evento funesto. A legare indissolubilmente lo stadio a quella cocente sconfitta.
Ma il Maracanã è stato ben altro. Il teatro della poesia calcistica. Testimone di come il calcio possa essere immaginazione, creatività e voglia d’improvvisare. A suonare la samba con movimenti del corpo e giocate improvvise. Con dei piedi al posto di uno strumento.
Ha così visto il millesimo gol di Pelé. La perenne finta di Garrincha. L’estro di Zico. Nell’esaltazione per una giocata. Che da queste parti conta più di una vittoria. Perché il calcio è manifestazione estetica prima che uno sport. E il bel gesto diventa arte pura. Come un assolo di una tromba o il verseggiare di un poeta.