Sguardo severo. Accigliato. Come di chi non ti perdona nulla. Indagatore talvolta. A scrutare le variabili che conducono alla vittoria. Inflessibile con la sua etica del lavoro. Tanto da non essere indulgente con nessuno. Neanche con se stesso.
Gigi Radice era un sergente di ferro. Da portare il suo Torino in ritiro dal giovedì. E controllare ogni cosa. Come un padre attento. Come il fratello maggiore che ne fa le veci.
Ad imitare i grandi che lo avevano cresciuto ed educato. Quel Rocco che l’aveva visto giovane in un Milan che conquistava l’Europa.
E insieme al valore della tradizione, quel vento innovatore che viene dall’Olanda. A sconvolgere un calcio antico. Ad insegnare agli attaccanti il pressing e ai difensori a superare la metà campo.
Lui ad appropriarsi di questo calcio. Mettendoci dentro la fantasia latina con i Pecci e i Sala. Costruendo un Torino che vince finalmente. Dopo Superga. Dopo gli invincibili.
E poi in tanti lidi. Da Cagliari a Firenze, da Roma a Bari. Talvolta risollevando le sorti di una piazza, altre fallendo. Ma sempre coerente con se stesso. Con il suo modo di guardare al calcio e alla vita.
Risollevandosi spesso. Anche quando un incidente in auto sta per portarselo via. E gli fa perdere il caro amico Barendson.
Non è mai stato accomodante Radice. Spesso in conflitto con presidenti megalomani. A cui contrappone serietà e lavoro. Ma senza mai mostrare in pubblico questi dissidi. A confermare il sacro valore della discrezione.