Quando ero piccolo, il venerdì era giorno di paghetta. 2000 misere lire. Frutto per altro di una dura contrattazione con mio padre.
Appena riscosso, correvo dal giornalaio e dilapidavo il mio piccolo stipendio comprando le figurine. 200 lire a pacchetto. 10 pacchetti.
Mi godevo tutto il tragitto dal giornalaio a casa. Aprivo con dovizia la bustina e sniffavo con lussuria l’odore della colla. Belle, lucide e profumate. Come le avessero create solo per me.
Appena scartate mettevo in moto la memoria alla ricerca dei doppioni. Partiva il rito del CELOCELOMIMANCA. E poi raccoglievo in un mazzetto quelle che avrei incollato.
Tornato a casa, raccoglievo l’album e le attaccavo. Ricordo ancora il brivido di quando scollavo la figurina che emetteva quel lieve sibilo. Come di cosa che striscia. E poi la ricerca della perfezione nell’incollare. Tentativo sempre deluso da una posizione mai perfetta.
Il problema era quando l’album si andava completando e i pacchetti erano una sfilza infinita di doppioni. E allora non ti rimaneva che mercanteggiare con gli amici. Facendo gli scambi. Senza mai rivelare all’altro quanto avessi bisogno proprio di quella figurina lì. Ricordo ancora nei miei incubi una Carrarese pagata 50 figurine.
Le prime nozioni di economia le ho apprese così.
Un altro modo per completare l’album era giocare. Si organizzavano riffe con in palio le figurine. I prodromi dell’azzardo. Tanto che alcuni direttori facevano passare circolari i cui proibivano che si giocasse a scuola. Perché diseducativo e poco igienico. E poco igienico lo era effettivamente. Con quelle figurine che passavano da mille mani e raccoglievano sporco e pelle. Soprattutto quando si giocava a CALAMITA in cui ci si doveva leccare l’interno del pugno per riuscire a raccogliere il premio in palio.
O quando si giocava a MANIMPETTO e si nascondevano sotto la mano e l’avversario doveva indovinarne la quantità. O nello SCHIAFFETTO, stesi su sudici marciapiedi, a cercare di ribaltarle con uno schiaffo delle mani.