Sei nello spogliatoio. Ti sei preparato come al solito. Con la stessa dovizia. Indossi la maglia, i pantaloncini, ti sistemi i parastinchi, sollevi i calzettoni. Con la stessa, solita cura. Come fa un artigiano col suo manufatto. Il mister dirama le formazioni.
Tu ascolti, seduto sulla panca. Un po’ in disparte perché ti capita spesso di indossare il fratino e sistemarti tra le riserve. Ti sei allenato tutta la settimana con ferocia. Mai un cedimento, mai un momento di relax. Sempre a macinare fatica.
Volevi mostrare che meriti di più. E cercavi di incrociare lo sguardo del Mister. “Chissà avrà apprezzato l’impegno e il coraggio che ho mostrato!”.
Il mister continua ad elencare i titolari ma niente. Tu non ci sei. Devi andare in panchina. E abbassi lo sguardo perché non vuoi dare a vedere di essere deluso. Ché sei nato per il sacrificio e la squadra è più importante del singolo. E allora ti accomodi sulla panca a soffrire il freddo dell’inverno, mentre gli altri, quelli in campo, si sbracceranno per il calore della corsa. Tu infagottato nel tuo giubbotto. Come se gli altri non esistessero accanto a te. Solo te e la tua rabbia.
Ché non sai neanche se hai voglia di entrare. Magari 20 minuti che non riesci neanche a capire che posizione prendere e magari per quei 20 minuti qualcuno ti attribuisce anche la responsabilità di un errore.
Manca poco alla fine della partita e il mister ti chiama per scaldarti. E tu con lo stesso impegno ti alzi, ti togli il giubbotto e fai su e giù lungo la linea laterale.