“Dio salva e Rush ribadisce in rete” campeggiava su un muro di Anfield.
Il gallese era uno di quegli attaccanti che hanno un rapporto erotico col gol, colti da raptus quando vedono i quadratini della rete bianca. Sempre in attesa di quel formicolio che ti prende quando la palla si arrampica sulla retina e subito dopo il tifo si gonfia di un urlo avvolgente.
Uno di quella razza tipo Inzaghi, Paolo Rossi, Trezeguet. Avulsi dal gioco, tanto per loro conta solo quel momento, quello in cui la palla varca la linea e il cuore batte a mille all’ora.
Inseguito dalla sua fama fatta di caterve di gol nel Liverpool, arriva in Italia nell’estate del 1987 in una Juventus che apre un nuovo ciclo, senza più le roi Platini e senza più il Trap a condurre le fila con il suo fischio dalla panchina.
Ma Rush non è più quello inglese. A disagio tra le marcature dei cagnacci italiani che ti mordono i polpacci quando provi a divincolarti.
Quasi intimidito dall’ambiente, pare nascondersi dietro i difensori come a chiedere ai compagni di non passargli palla perché non saprebbe che farne.
Quasi ingobbito nel suo incedere, come volesse chiudere gli occhi e giocare da solo, ché sente nostalgia del pub la sera con gli amici.
Come colto da saudade brasiliana, dopo un solo anno torna al Liverpool dove si ritroverà sotto la Kop nuovamente a segnare.
Perché lì ci sono i suoi tifosi che gli cantano YOU’LL NEVER WALK ALONE e non c’è posto migliore al mondo di casa tua. Calcio Graffiti
Record: 29 presenze in serie A 7 gol