Sembrava mangiarselo quel microfono. Quando spingeva gli Abbagnale con la concitazione della sua voce. Tanto che alla fine la voce si riduceva ad un rantolo incomprensibile. Come fosse salito lui su quell’armo. A vogare con le braccia. Coi muscoli. Ma anche con la passione del racconto. Fino ad arrivare alla fine. Stremato. All’arrivo. Col cuore che finalmente ritornava al suo consueto ticchettare. E noi lì ad aspettare il suo fervore alla pari dell’impresa sportiva.
Forse perché sul campo di gara vedeva se stesso. Lui che era stato canottiere e le Olimpiadi le aveva solo sfiorate. E agognate. E allora nel suo racconto affiorava la rivalsa. Insieme a una debordante passionalità. Così distante dai doppiopetti dediti alla fredda cronaca.
Lui cantore della battaglia. A suo agio lì dove si accendeva l’agonismo. Come nelle sue interviste a caldo a bordo campo. O negli spogliatoi del calcio. A raccogliere testimonianze vive e ancora intrise di tensione sportiva non ancora taciuta. E poi a testimoniare gli eventi come nello scudetto del Napoli. Lì insieme a Maradona a vivere la squadra dal suo interno. A mostrare quello che c’era dietro la facciata.
Più dimesso quando passava dietro una scrivania. A condurre, quietando la sua verve. Come in 90 minuto. Quasi gli mancasse l’adrenalina della gara. Così poco confortato dalla freddezza dell’analisi.
E poi le cronache tennistiche. Nel più signorile degli sport. Che lui raccontava come fosse un incontro di boxe. Nascondendo talvolta le lacune tecniche con un ardore diventato poi proverbiale. Come nelle lunghe giornate di Coppa Davis.
Era eccessivo Galeazzi. Nel fisico e nella vivacità.