Quando Franco Baresi comandava alla difesa di alzarsi, la difesa come una muraglia saliva compatta dietro al suo capitano.
E con la stessa sicurezza alzava il braccio a intimare a tutti che ancora una volta il miracolo del fuorigioco era compiuto. Una difesa che attaccava. Un’eresia in Italia.
Uomo timido, schivo era il capitano milanista. Ma dotato di un’autorevolezza insolita in un campo di calcio. Sembrava guidare dalle retrovie tutta la squadra e di sapere sempre prima come tenere compatti i compagni in quella che doveva essere un blocco unico. E loro, i compagni di squadra, gli porgevano la reverenza che si concede al più saggio, a quello che conosce la vita, a quello che ti offre i consigli più razionali. Sarà forse per il suo modo imperante di anticipare l’avversario e di uscire palla al piede. Testa alta, schiena dritta e la sapienza di chi sa già come l’azione si evolverà.
Ha saputo cambiare il capitano. Era un grande libero, lì dietro alla difesa a chiudere ogni varco con quella capacità divinatoria di vedere prima l’azione e poi ad impostare con grandi lanci a testa alta come si conviene ad uno che vede il campo e disegna traiettorie. Poi abbandona le sicurezze e con Sacchi si converte alla difesa in linea. Non più ultimo baluardo, ma regista di difesa. A guidare la retroguardia, facendola alzare e abbassare a seconda del momento. E tutti lì a rispondere ossequiosi ai comandi del capitano.
Mai sopra le righe. Mai una parola fuori posto. Con l’autorevolezza del silenzio ha dominato sugli attaccanti di una Serie A ricca di campioni, con il solo rammarico di quella finale di Pasadena, giocata recuperando da una lesione al menisco in appena 25 giorni perché il capitano non poteva mancare alla più importante delle partite.
E quelle lacrime finali, sfogo umano del più irreprensibile e rispettabile tra i capitani. Calcio Graffiti
Record: 739 presenze nel Milan 33 gol