C’è stato un periodo in cui, anche non avendo la maglia a strisce, avresti potuto vincere uno scudetto. In cui Cagliari, Bologna, Fiorentina rivaleggiavano con le tre grandi. In cui lo scudetto non era segnato sin dal principio ma ad inizio anno era almeno viva la speranza. Perché un mercato assennato, una motivazione vigorosa, un’unità di spogliatoio potevano valere più dei milioni dei magnati dell’industria.
Quella Fiorentina non partì favorita. Un campionato dignitoso da quarto posto si immaginava. Ma la coesione di squadra è caratteristica ancor più potente della caratura dei singoli. Una squadra in cui ognuno occupa il ruolo per cui è nato e insieme si va ad incastro. Così l’agilità di Superchi in porta si univa ad una difesa rocciosa. E le geometrie a centrocampo di De Sisti facevano un’unione armoniosa con le sgroppate sulla fascia di Chiarugi. E su tutti lo sgusciante Amarildo, a confermare che il talento è sempre accompagnato dalla sregolatezza.
A far da chioccia il sempre pragmatico Bruno Pesaola. Il “Petisso”. Che al miracolo aveva creduto sin dal principio. Cosciente che nel calcio tutto può succedere se credi che la forza non la facciano solo i milioni.
Fu il secondo e ultimo scudetto della Viola. Da allora Firenze guarda con nostalgia a quegli anni.
In attesa che un giorno possa tornare il tricolore. Calcio Graffiti