Devi essere un po’ pazzo per fare il portiere. Lanciarti in un tuffo per poi incocciare la terra dura. E mentre stai sospeso nell’aria, pensare che stai imitando il volo. Per pochi secondi. E poi ritrovarti sull’erba. Quando non sul terreno. Ché quella parte di campo è ormai consunta. Bruciata dal tuo continuo muoverti. Ma niente può avvicinare quell’ebbrezza. Quella continua vittoria sulla gravità.
Ricky Albertosi era un portiere che amava volare. Lanciarsi in aria alla ricerca della posizione perfetta.
Come statue greche colte nel momento fatale. A far di sé un capolavoro in movimento. Perché l’occhio dello spettatore rimanesse estasiato di fronte alla plasticità del gesto.
Dotato di un innato senso della posizione. Ma anche di un profondo senso dello spettacolo. Ché il calcio è fatto di azioni memorabili. Di racconti che si tramandano. E il portiere non può stare fermo. Ma deve tuffarsi. A mostrare la sua fisicità. A definire le varie figure del movimento.
Guascone nel campo come fuori. Perché voleva godersi la bellezza della vita. Il suo piacere profondo. Il senso inebriante di chi la vita la consuma. Di chi si fa guidare dalla sensualità. E allora donne, corse di cavalli e sigarette.
Anticonvenzionale anche nel look. Ad indossare maglie colorate. Quando i colori accettati erano solo grigio e nero. A svecchiare un’immagine troppo imbolsita. E quei baffetti maliziosi a seguire mode e tendenze.
Perché non si può rinunciare alla propria indole. La stessa che ti fa volare da un palo all’altro. A sfidare le leggi della fisica. Perché sei fedele a te stesso nel campo come fuori.
Ricky Albertosi. L’uomo che amava volare. Calcio Graffiti
Record: Due scudetti con Cagliari 1969/1970 e Milan 1978/1979