Tutto in una partita. Tutta una stagione condensata in 90 minuti. Tutte le gioie, le amarezze, i pianti, le urla di un anno intero condensati in un solo match. Perché non sono bastate 36 partite. 36 volte in cui hai indossato i pantaloncini e sei uscito dallo spogliatoio. In cui hai pensato alla strategia. All’avversario da affrontare. Alla preparazione. E poi in campo a faticare. A cercare di superare le difficoltà. A gioire e a bestemmiare.
Niente ha più valore adesso. Perché adesso “chi segna vince”.
È il 7 giugno 1964 quando Inter e Bologna si incontrano all’Olimpico per lo spareggio. Non accadrà mai più. Entrambe a 54 punti. L’Inter reduce dal Prater di Vienna dove ha battuto il grande Real. Con una Coppa dei Campioni da esibire. Il Bologna di Fulvio Bernardini con il suo assetto quadrato. Con cervello a centrocampo con Bulgarelli e il senso del gol di Nielsen.
La grande Inter di Herrera con una formazione da mandare a memoria. Che la gente anni dopo citerà come si citano le filastrocche imparate alle Elementari. In cui ogni giocatore è il simbolo del suo ruolo.
E un Bologna animato dalla perdita del suo presidente. Quel Renato Dall’Ara che diventerà poi il nome dello stadio. Una motivazione che scuote l’animo dei giocatori che non possono neanche partecipare alle esequie.
E così arriva la partita. Con una Inter che frange i suoi attacchi contro la rocciosa difesa capeggiata da Janich. E il Bologna che ribatte. Metodico, attento, quadrato.