Sotto la curva. Come un normale giocatore. Ad esultare senza freni. Spinto solo da una passione irrefrenabile. Fregandosene di convenzioni e perbenismo. E irridendo il volto compassato di chi, serafico, guarda al calcio con la seriosità di un ragioniere.
Perché non aveva filtri Alberto Malesani. A mostrare con la sua gestualità prorompente il debordare del suo entusiamo. O in quelle colorite espressioni del viso.
Insofferente ad un mondo patinato in cui non si riconosceva. A convenzioni che volevano l’allenatore rispondere per convenienza. Fabbricando frasi confezionate. Lui che invece tracimava nelle interviste con il suo accento veneto. Come sgorgasse la sua parte più autentica. Quella legata alla sua terra. Alla sua origine.
Eppure uomo moderno. Già agli inizi nel Chievo. A portare la sua esperienza aziendale in società. A far fruttare la laboriosità del suo territorio. Portando idee innovative. E poi a far parte della nouvelle vague degli allenatori. Proponendo un calcio fantasioso e offensivo. Rompendo schemi sia fuori che dentro il campo.
Ma, suo malgrado, divenuto macchietta. Pagando talvolta la sua genuinità. E la voglia di non adeguarsi al conformismo di un mondo troppo etichettato.
Adesso produce vini Malesani. E magari davanti alla sua vigna, sorseggiando l’Amarone, ripenserà a quando fu l’allenatore dell’ultima squadra italiana a vincere la Coppa Uefa.