Un mondiale a novembre. In un piccolo emirato arabo. Al caldo del deserto e sotto la protezione dei “petroldollari” degli sceicchi.
Ultimamente lo sforzo dei padroni del pallone è quello di adattare il calcio alle nuove tendenze: sviluppare sempre più contenuti da fornire alle nuove piattaforme, venire incontro al gusto dei giovani, rendere lo sport appetibile per i social.
Dimenticando quella che è l’essenza di questo sport: il rito.
Quella forma di scansione del tempo per cui ricordiamo il 1982 come l’anno dei mondiali. O il giorno dello scudetto della squadra del cuore.
Il rito. Così come quello che ogni quattro anni a giugno si ripresenta. Con le grigliate serali. Con le domande stupide di chi segue il calcio ogni quattro anni. Con la birra gelata in mano. Con gli amici radunati davanti alla tv.
Il rito che ci mostra come, nonostante lo scorrere del tempo, ci sono cose che non cambiano, che rimangono sempre le stesse. Che, sebbene tutto sia cambiato nella vita, ci sono punti fermi non commerciabili.
Il mondiale fa parte della nostra vita. Tutti ricordiamo dove eravamo e con chi eravamo nella finale dell’82 o nella finale del 2006.
Siamo consapevoli che il calcio è un business. Ma ci piace immaginare che non lo sia fino in fondo. Che almeno un briciolo di passione, di gioia continui a sussistere.
Il mondiale in Qatar ci sbatte in faccia il fatto che le nostre pie illusioni sono solo infantili miraggi. Che la nostra passione è vendibile al miglior offerente senza alcun ritegno per tradizioni e valori.
Nonostante tutto ci tureremo il naso. Passando sopra ai morti, ai diritti, al denaro, agli sceicchi. Lo vedremo ugualmente, anche se con un po’ di repulsione. Perché la nostra passione è insopprimibile ed è più forte di chi contrabbanda il nostro amore con il petrolio.
Magari salteremo Qatar-Ecuador. Quella proprio non riusciamo a vederla….