22 Novembre 1981. Fiorentina-Genoa. Giancarlo Antognoni anticipa l’uscita di Silvano Martina. Che a ginocchio alto lo travolge. Colpendolo sul capo.
Il giocatore rimane a terra esanime. Tra le lacrime di compagni e avversari. Disperati. E l’intervento fulmineo dei medici delle due squadre. Per trenta secondi il cuore ha smesso di battere. Per trenta secondi il vuoto.
Poi, minuti dopo, lo speaker dello stadio annuncia che si è ripreso. E il “Comunale” si libera. Applaudendo. Emettendo un sospiro per troppi minuti trattenuto. Nell’ansia di chi attende notizie di vita o di morte. E poi lo butti fuori quel respiro malevolo. Perché le cose vanno per il meglio.
Perché Giancarlo Antognoni apparteneva al popolo viola. Come un parente, un amico. Uno di famiglia. Uno che ti rappresenta anche se non è nato a Firenze. Non è neanche toscano. Ma si è preso la squadra sulle spalle. La conduce con quel suo fare elegante da principe rinascimentale.
Nel campo a circoscrivere il suo territorio. Il centrocampo. A farsi vedere dai compagni e poi a guidare il gioco. Quasi fosse un faro per i naviganti. A cui fare sempre affidamento nelle traversate. Palla a lui che con testa alta osserva tutto e decide dove destinare la palla. Senza mai abbassare lo sguardo. Sempre attento a scorgere movimenti e posizioni. Con la visione di chi preconizza il futuro.
Un regista come quelli di una volta. Che tesse trame e indirizza la partita. Col passaggio breve e il lancio lungo. A seconda dell’opportunità. Ché oltre ai piedi è il cervello che deve lavorare. E unito ad un portamento regale dona le stimmate del capitano.
Questo talento purissimo ha dovuto continuamente lottare contro un destino balordo. Che si manifesta anche nel momento del trionfo. Mondiali 1982. Quando deve rinunciare alla finale per infortunio. E vedere gli altri giocare mentre si compie la storia.