A quattordici anni decisi di andare al liceo. In un piccolo paesino della provincia. Non aveva ancora una sede definitiva perché in costruzione da anni. E allora le aule erano stipate nel Municipio. Piccole, strette, con muri scrostati. E si vedeva tutta la piazza del paese di lì. E quando arrivava la festa patronale le luminarie sembravano entrare nell’auletta.
Le materie erano molto dure e il primo anno era difficile ambientarsi. E non vedevo l’ora arrivasse la domenica. Ma, prima della ritirata, le ultime due ore del sabato avevamo educazione fisica.
Non c’era la palestra. Né campi di basket o pallavolo. E allora allo scoccare delle 10 raccoglievamo gli zaini e ci recavamo nella piazza del mercato. In ordine sparso. Come un gregge in transumanza. Chi correva davanti. Chi passeggiava dietro a guardare le vetrine. Chi palleggiava tra le auto. Tra le urla del prof.
Arrivati lì il professore ci divideva in maschi e femmine. Le femmine a giocare a pallavolo e i maschi a pallone. Gli sport seguivano il sesso.
Così ci sistemavamo nella piazza e preparavamo il campo. Cercavamo le pietre da piazzare come pali e disegnavamo la linea di porta col gesso. La piazza era enorme. Quanto un campo da calcio a 7. IN asfalto ovviamente. E capitava che qualcuno cadesse e si facesse male. Qualche crosticina da portare a casa. Ma non era ancora il tempo dei genitori che denunciavano. Perché le ferite sul campo erano come le ferite di guerra. Da mostrare orgogliosamente. Giocavamo la I D contro la I C. Vincevamo sempre noi della I D. Una partita impari. Troppo forti per loro. Noi giocavamo tutti a pallone da tempo.
Ma non era la partita in sé. Era la liberazione che quella partita significava. Il senso del “rompete le righe”. Consacrato dalla partita di pallone. E alla fine di corsa ad andare a prendere il bus di ritorno ché finalmente il pomeriggio ero libero di fare quello che volevo.