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AZTECA

AZTECA

Ci sono luoghi che accolgono il mito. Testimoni di momenti che il tempo tramuta in leggenda. Col favore del racconto di chi c’era. Le cui parole diventano narrazione magica. E il tramandarlo di generazioni sospende i luoghi e le azioni in un tempo indefinito. Vicino all’eternità. E il luogo che li ha accolti diventa tempio. A rendere sacre le gesta.

L’Azteca ha fatto da proscenio a momenti epici del calcio. Quelli che diventano stereotipi. Da citare come momento fondativo. Come simbolo di un’età della vita che non tornerà più.

Tribune che parlano di Italia Germania 4-3 con il sobbalzare degli animi ad ogni gol segnato. O quel Brasile del 70 che era fantasia, forza ed eleganza. Con un Pelè che svettava di testa sulla difesa italiana a segnare la sua sovranità sul calcio mondiale.

O quella mano guascona che si insinua tra portiere e difensore a segnare un limite sottile tra genio e furfanteria. Per poi giocare tra i difensori inglesi con l’allegria dei bambini che nei campetti vogliono arrivare in porta scartando tutti. Con la spensieratezza del’innocenza. Aveva il 10 e la maglia dell’Argentina. E accarezzava il pallone come si fa con i figli quando si torna a casa dal lavoro.

E quello stadio guarda i campioni e li ispira nei movimenti. E cristallizza quelle azioni. In modo che le generazioni a seguire li guardino come si guardano i vecchi poeti. Come cantori di un tempo passato.

Ospiterà nuovi mondiali nel 2026. In attesa di un nuovo mito da consacrare. Calcio Graffiti