Quando ero piccolo andavo al “campo”con i miei zii perché a mio padre il calcio non interessava. Si mangiava alle 12 perché la partita iniziava alle 14.30 e poi via per il Della Vittoria.
Due ore prima della partita ché bisognava trovare posto per la macchina a circa due chilometri dallo stadio. Così al ritorno non ci si trovava nel traffico.
Mio zio portava le castagne in un cartoccio, così si faceva la merenda. Io arrivavo con la sciarpa che mi aveva regalato il mio vicino che lavorava per la banca che faceva da sponsor alla squadra.
Quindi ci mettevamo in coda per affrontare la temibile gabbia. Strettissima tanto che ci passava solo una persona.
Si entrava sospinti dalla folla dietro che premeva dalla foga di entrare. E ti sentivi salire l’ansia dietro le sbarre di ferro che parevano le traversine di un sarcofago. Per fortuna i miei zii facevano da ombrello proteggendo il bambino dalla ressa.
Entrati si distendevano i muscoli e si saliva la scalinata. E si vedeva il verde vivo del campo che gradino dopo gradino diventava sempre più evidente. Finché alla sommità della scalinata non si sentiva il boato del pubblico.
Ero allo stadio. Ci si sistemava sui gradoni di cemento con il giornale sotto il sedere e si attendeva il fischio d’inizio leggendo il Galletto. Ma appena iniziava la partita tutti magicamente si alzavano impedendo al mio “metro e trenta” di guardarsi l’incontro.
Allora la famiglia interveniva FATE VEDERE IL RAGAZZO e la solidarietà creava un pertugio attraverso cui gustarsi la partita.
Ma io in definitiva ero più interessato alla coreografia della curva di fronte che come un’onda marina si muoveva compatta saltando e cantando.
È lì che si è formata la mia passione per questo meraviglioso gioco.
ANONIMO TIFOSO DEL BARI