Nei giorni in cui non si andava a scuola, mio nonno veniva a prendermi a casa e andavamo in giro per la nostra città. Bari. Ripercorrevamo le strade del quartiere dove era nato. Salutava tutti gli amici di infanzia. Il fruttivendolo, il fabbro, il macellaio. Tutta la comunità del vecchio quartiere. Una sorta di via crucis in cui si rammemoravano volti ed episodi. E poi ci dirigevamo verso la città vecchia. A comprare la focaccia.
E mio nonno cominciava a raccontarmi del pallone. A fare del calcio un racconto epico.
Di quando andava allo Stadio Della Vittoria sul “carruccio”. E prima di andare comprava i sigari indiani.
Di quel calciatore che giocava con gli occhiali e, nonostante questo, incornava di testa svettando sui difensori.
Di quel portiere che parava tutti i rigori. Schiacciando il pallone per terra.
Di quel centrocampista che prendeva in mano il centrocampo e lo dominava con testa alta. Con l’eleganza del portamento.
Di quel terzino di fascia che lasciava solchi sul campo per la potenza del suo incedere.
O di quel difensore così cattivo che al primo intervento lasciava i tacchetti sulle caviglie degli attaccanti. E poi di nascosto rifilava pugni nello stomaco.
O di quando, da migrante in Francia, a Saint Etienne, vide Michel Platini e ne pronosticò un futuro radioso.
E quando nominava la sua Inter la chiamava Internazionale.
Dagli anni 80 in poi, mio nonno si disaffezionò al calcio. Troppi stranieri per lui. Troppo vezzosi quei giocatori. L’orecchino, la maglia fuori dai pantaloncini, i calzettoni abbassati. Atteggiamenti insopportabili per lui. Tanto che cominciò a tifare Piacenza perché in rosa aveva solo italiani.
Negli ultimi anni non ha più seguito il calcio. Quasi nauseato. Era fermo ai suoi ricordi di bambino. Alla memoria di un calcio che aveva tradito la sua essenza.