Li chiamano leoni indomabili. Forse perché nel campo portano la vigoria e i muscoli di chi del fisico fa scultura. Con quell’assillante pressione che mette ansia quando devi costruire calcio. Ché la devi buttare sulla tecnica, sul fraseggio, quando a livello fisico non c’è partita. Oppure sulla tattica e allora prendi spunto da una tradizione secolare per battere la natura.
Era un calcio molto fisico quello africano, in particolar modo quello subsahariano. Basato su uno spontaneismo che urtava contro i dettami della tattica. D’altronde doveva confrontarsi con una tradizione secolare fatta di moduli, di ruoli ben definiti e di regole che l’esperienza aveva reso efficaci.
Era un giovane calcio quello africano che aveva il sapore di acerbo. Di qualcosa colorato di passione e istinto. Non aveva ancora la razionalità dello schema europeo. E l’Europa lo guardava con quello spirito naif che ha il colonialista che si sente umano.
Dagli anni 80 qualcosa comincia a cambiare. L’Europa comincia ad andare in Africa e a disciplinare l’esuberanza, dettando strategie e tecnica di base. E il Camerun dei mondiali dell’82 è il primo esempio di questo cambiamento. Squadra ostica, arcigna che ha appreso i primi rudimenti della tradizione occidentale ma senza abbandonare quella fisicità che la caratterizzava. La fatica immane dell’Italia, poi campione del mondo, in quella partita di qualificazione lo dimostra. Finì 1-1 e ci qualificammo, ma sentiamo ancora il fiato sul collo dei giocatori africani. Eravamo quasi strangolati dalla loro materiale presenza.
L’evoluzione continuerà negli anni e il loro calcio somiglierà sempre più a quello che si gioca lì dove il risultato conta. Fino a quella meravigliosa Nazionale di Italia ‘90 che sorprese il Vecchio Continente.
Ma questa è un’altra storia. Calcio Graffiti