Ci sono uomini di cui si apprezza l’autenticità. Che non fanno giri di parole per dirti qualcosa. Che preferiscono parlarti con quella cadenza che ricorda la loro nascita, piuttosto che avventurarsi in una finta dizione. Magari in dialetto, così si capisce che il successo non ti ha cambiato l’animo. Che sei sempre l’uomo che da bambino viveva a Trastevere e andava a vedere la Roma. Ché giallorosso era il tuo cuore.
Questo era Sor Carletto, uomo di cuore. Uomo schietto che conosceva una sola parola. Senza strategie comunicative moderne suggerite dal mental coach. Uomo di spogliatoio che col fuoco della passione animava la squadra.
Abituato ai campi di provincia dove il sacrificio e la sofferenza più che valori sono delle necessità. Ché lì devi stare a raccattare volontà e forza per sopperire alle tue lacune.
E con i suoi giocatori era come quel buon padre che non ti dà il bacio della buonanotte ma quando va a coricarsi piange pensando a te. Perché il figlio cresca forte e sano.
Così con i campioni che ha allenato facendo da chioccia (Totti, Pirlo, Baggio). Curandone la crescita perché il talento non è nulla se non c’è un “uomo” a custodirlo. Ché vengono prima i valori e poi il tocco di palla.
E poi all’improvviso la realizzazione del sogno. Nel 1993 lo chiama la Roma. E dopo tanto vagare tra la periferia d’Italia il ritorno a casa. Lì dove sei nato. Lì dove alberga il tuo cuore. Lì dove riconosci la gente; ché si hanno le stesse origini. Ché capisci tutte le sfumature di quella gente; ché ti basta guardarla per capire cosa pensano. Tre anni è durato. Senza grandi successi ma con l’orgoglio di chi rappresenta il volto autentico della capitale. E poi di nuovo a vagare tra la provincia.
Uomo autentico Sor Carletto. Come la sua folle corsa sotto la curva atalantina, senza pensare alle conseguenze. Guidato dalla passione e dalla voglia di vendicare l’offesa fatta alla famiglia.
E quei MORTACCI che escono dalle viscere, come il suo amore per il calcio. Calcio Graffiti